I can hardly think of anyone dumber than the average smartphone enthusiast. Technically a meaningless term by now, smartphone is used as a marketing buzzword to make the consumer feel smart if she keeps up employing her financial resources and personal time to consume online. The object of the consumption are hardware gadgets, connection time, apps (mostly designed for the dummies who can’t use the web), online entertainment, and especially in-app purchasing, one of the killer marketing applications of the 2000s, first popularized by Apple. In the process, people also consume most of their cognitive bandwidth, which, consistently with what Jon Zittrain anticipated, is directed to playing the games conceived by astute marketeers, and almost never aimed at expanding one’s competence. As with most digital technologies, one to five percent of people are leveraging smartphones to gain power and/or expand knowledge, while the other 95% are but blind consumers. And the consumer is “a prey in the Supranet jungle”… Mastery of technology, whether it be digital, financial, biotech, or materials’, is what generates the increasing income inequality to be observed worldwide. Take a look at the portion of people who can use technologies (instead of just being used through them), and you’ll get a proxy of the portion of people who are getting richer and richer. [Written on the day that “smartphone sales surpassed feature phones”, whatever that means]
The reason online authentication becomes more and more annoying is not that crackers are getting smarter: it is the multitudes of fools who cannot pick a decent password!
Anche chi, come me, lo considera stralunato e strampalato, deve ammettere che il Movimento grillino ha o avrà il grande merito di riavvicinare la gente alla politica.
Da qualche decennio, la carriera politica veniva intrapresa quasi esclusivamente da arrivisti senza scrupoli e senza ideali, perché si era capito che essa era altamente remunerativa anche se non si aveva alcuna competenza né talento se non furbizia e assertività. Ma era comunque un ambiente competitivo: gli incompetenti ambiziosi e furbetti sono legioni, dunque occorreva sgomitare con pervicacia e ferocia.
Adesso, invece, tutti abbiamo visto che con 23 amici su Meetup, magari nemmeno tutti veri, si poteva diventare senatori. Abbiamo così improvvisamente realizzato che potrebbe convenire impegnarci di persona: alla peggio, magari non passeremmo noi personalmente ma almeno qualcuna delle nostre personali opinioni!
Non andremo fisicamente in sezioni e circoli serali: ma vi parteciperemo online. Che non è la stessa cosa ma è sempre meglio che scegliere tra le opinioni di minus habens a Ballarò o Porta A Porta.
Un’aberrazione dalla quale occorrerà guardarsi, però, è l’equivoco intorno alla democrazia diretta. La democrazia diretta è argomento da politologi e storici, non da informatici.
Gli informatici, poi, sono spesso confusi anche sulla loro propria materia. Ad esempio, da quando esiste il web di tanto in tanto qualcuno salta su ad ammonire che questo o quell’àmbito sarà “disintermediato”. Ma non è mai stato vero. Non è mai successo.
Amazon non ha rimosso l’intermediario-negozio: ha sostituito quello di prima, brick-and-mortar, con quello online (ha anche trasformato intere filiere, come quella editoriale: ma gli attori non sono diminuiti, sono solo mutati). Morningstar o Charles Schwab non hanno eliminato la distribuzione retail dei prodotti finanziari: l’hanno arricchita. Google non ha rimosso l’agente pubblicitario: vi si sta sostituendo. Open Source o Wikipedia non hanno reso ridondante la figura del progettista e del team leader. Eccetera.
Allo stesso modo, la democrazia online non sarà per forza “diretta”, ossia un’impressionante agorà dove ogni mattina qualcuno esamina 50mila disegni di legge pervenuti, formulati perlopiù in italiano maccheronico e in gran parte peggiori di quelli sentiti in passato a Ballarò, e ne propone alcuni al popolo della rete per una votazione.
Chi coltiva questa visione non avrebbe dovuto passare Diritto al primo anno di Ragioneria. E neanche Informatica I per la verità.
Semmai, si potranno prendere decisioni molto più in fretta di oggi: la politica andrà finalmente a una velocità comparabile con quella dei mitici “mercati”.
Ci sarà una distanza più breve tra basi e partiti politici. Sarà più facile valutare la competenza dei delegati. I quali emergeranno come accadeva in passato: convincendo gli altri in sezioni, federazioni, congressi nazionali, tutto online o quasi.
Ci potremo permettere organi legislativi più snelli (Parlamento, Consigli regionali provinciali comunali). Potremo rinnovarli con maggiore frequenza.
Si potranno fare molti referendum propositivi, e magari finalmente pesarne i voti.
Ma delega e rappresentanza saranno sempre necessarie. O quantomeno non si è ancora affacciata l’innovazione che consentirebbe di superarle o anche soltanto di auspicarne il superamento.
Sui giornali, ho sentito elettori del Pd lamentare che essi dovrebbero poter contribuire alle proposte del partito immettendo online i propri emendamenti.
E mi pare giusto. Il web sta contribuendo a ravvivare il rapporto base-vertice dei partiti, da lustri ridottosi a mera fruizione televisiva.
Bisogna tuttavia considerare che le proposte formulate da un partito, che provengano dal web o che provengano da sezioni-federazioni-congressi brick-and-mortar, saranno sempre la semplificazione di opinioni differenziate. Su alcuni punti gli elettori del Pd, coacervo di retroterra politico-culturali molto diversi, hanno opinioni divise (accade anche in M5S, immagino): e a un certo punto occorre arrivare o a una sintesi o a delle scelte.
Dobbiamo stare attenti a non invocare il “tempo reale” o la “la rete” come meccanismi magici. Intanto, i partiti politici sono da sempre esempi di intelligenza collettiva. E poi, anche quando il web sarà molto più evoluto, le decisioni finali saranno sintetiche e dirimenti: molti sostenitori continueranno a non riconoscere, nelle proposte pubbliche del partito, le loro proprie.
Inoltre, nessun partito può leggere, capire e riconciliare le opinioni di tutti i suoi singoli elettori, in un blog o qualunque altro sito web. Certo, faremo passi in avanti. Oggi possiamo recepire le opinioni dal basso contando i commenti a un post o rilevando le reazioni a quesiti a risposta multipla, oppure eleggendo dei delegati, come accade anche nell’Open Source.
Domani disporremo di software content analytics più sofisticati, che consentiranno di analizzare le proposte di ciascuno, formulate liberamente in italiano, magari sgrammaticato, e di sintetizzarle (ossia lasciando sempre vincitori e vinti), confrontando le une con le altre.
Ma il problema vero, che invoca una soluzione politica urgente, è l’assenza di un’identità online certificata: questo particolare, misconosciuto in Italia mentre in altri paesi vi si è già legiferato, è a mio parere il più grave ostacolo sulla strada della democrazia online.
Invece di raccontarsi scempiaggini sulle startàp e sull’economia della conoscenza, la cultura italiana dovrebbe riflettere su come funziona veramente la filiera dell’innovazione, specie quella a base tecnologica. (Da noi, si crede ingenuamente che tutto dipenda dalle spese in ricerca e sviluppo).
Se lo facessimo, una delle conclusioni che ne trarremmo sarebbe il riconoscimento della necessità di riconvertire gli addetti delle produzioni industriali obsolete.
Tale riconversione comporterebbe due vantaggi: la protezione dei lavoratori (non dei posti di lavoro senza futuro) e l’approntamento di un’atmosfera industriale adatta ad attrarre investimenti dall’estero.
Per quest’ultimo scopo servono anche altre misure (parlare inglese, Giustizia civile decente, PA efficiente, …), ma quella di cui parliamo qui è, a differenza delle altre, condizione necessaria: senza un tessuto industriale evoluto, nessuna produzione innovativa avrà luogo in Italia.
Questo fatto è stato spiegato, tra gli altri, da Andy Grove della Intel e da Steve Jobs al presidente Obama, come illustrato efficacemente da questo pezzo del New York Times (che dovrebbe essere tradotto e distribuito per uso e consumo da parte di politici e operatori mediatici italiani).
Non ci servono solo scienziati e MBA, ma anche (e in numero molto più grande di quelli) periti, quadri, operai specializzati, venditori, addetti al marketing.
Quando si è iscritti alle liste di mobilità, o in cassa integrazione, ogni settimana passata senza formazione è una scomessa su un futuro di difficoltà, sia per l’individuo sia per il sistema-paese.
Una frazione importante di inoccupati e disoccupati (tutti i giovani Neet, ma anche molti cinquantenni) potrebbero essere riconvertiti ad acquisire competenze di utilizzo dei sistemi informativi aziendali (produzione, spedizione, fatturazione, gestione crediti, alberghi, case di cura, aziende di trasporto, supermercati, beni culturali, …) e sui dispositivi di automazione che pervadono, e pervaderanno in modo esponenzialmente accelerato, tutti i settori della vita produttiva e civile, e che spesso richiedono un operatore umano per funzionare.
La mia agenda digitale è molto semplice e poco costosa:
dichiarare guerra agli analfabeti digitali
Non serve ucciderli, né licenziarli. Bisogna demansionarli, per agevolare l’ingresso dell’Italia in un contesto moderno dove l’economia si vivacizzi e i cittadini (anziani, disoccupati, contribuenti, malati, professionisti, imprenditori) vivano una vita migliore.
Hai meno di 45 anni e dirigi un ufficio pubblico o un’azienda privata con più di 5 dipendenti? Ebbene, allora sappi che 1) la Pubblica Amministrazione comunicherà con te solo per via informatica / telematica e 2) il cliente, business o consumer che sia, deve poter comunicare con te per via telematica: è un obbligo di legge. Dunque:
> Imprenditore o capo ufficio di azienda privata: Se non sei capace, impara o fatti affiancare da uno che lo sia: altrimenti l’azienda morirà o l’imprenditore ti sostituirà.
> Capo di un ufficio in Comune, Provincia, Regione, Ministero, INPS, Patronato, Catasto, ecc ecc ecc: Sarai sostituito e collocato in un ruolo di rango inferiore.
Non si richiedono skills da digital Rambo, ma semplicemente: usare l’email (e basta con la PEC, necessaria in 1 caso su 1000, e tutte le frescacce che vi girano attorno), tenere aggiornato il sito web con le informazioni necessarie a clienti e utenti, avere un sistema informativo in grado di dialogare con i clienti e/o con la PA.
Ci sarebbero, è chiaro, degli impatti sulle imprese, e qui Confindustria, invece di continuare ad ammorbarci con le chiacchiere sulla banda larga (che essa sponsorizza perché ci guadagnerebbero le aziende installatrici, anche se poi l’infrastruttura restasse lettera morta come accadde a fine anni Ottanta), dovrebbe dare il suo contributo per aiutare le moltitudini di piccole aziende, di prodotto e di servizio, che sono analfabeti digitali totali ad ammodernarsi. (E comunque, a guadagnarci sarebbero le aziende di software e servizi correlati. Se non fossero uomini di cacciavite, in Conf. lo capirebbero).
Ci sarebbe un impatto sugli addetti del pubblico impiego. E qui i sindacati dovrebbero contribuire alla trasformazione, cominciando da loro stessi.
Ci sarebbe anche parecchio exception handling da fare: l’agente assicurativo, il bravo dirigente amministrativo al quale dispiace rinunciare, il grossista di cemento o di materiale idraulico, … Ma tutte le guerre, come i farmaci e gli interventi chirurgici, hanno i loro effetti collaterali. E qui c’è un obiettivo superiore da perseguire: l’avanzamento economico e civile del paese, con benefici anche per quelli che avranno pagato un prezzo.
Spulcio The Data Journalism Handbook, opera collettiva alla quale hanno partecipato un centinaio di autori, in massima parte giornalisti o cultori della materia, più qualche avvocato, qualche informatico, qualche tesista universitario.
Nonostante un momento fondante dell’iniziativa sia stato un congresso recentemente svoltosi a Perugia, tra i 100 non c’è un solo italiano…
Sarò l’ultimo a stupirmi di questa assenza, visto che la nostra cultura si caratterizza per un vago analfabetismo digitale e una (più grave) sostanziale incapacità a rifarsi a dati e fatti nel dibattito sociopolitico.
I nostri giornalisti, con pochissime eccezioni, non capiscono concetti elementari come inflazione, costo della vita, disoccupazione, tendenze sociali macroscopiche, percentuali, media – mediana – varianza.
Il data journalism è un atteggiamento cresciuto in seguito alla constatazione che le news sono un flusso continuo sull’arco delle 24 ore, che la gran parte della loro sorgente è il web (o meglio la supranet), che l’open data è un fenomeno ineluttabile, e che il data mining può aiutare a scoprire tendenze e nuove informazioni, ben al di là del vecchio who, what, when, where, why.
Il movimento non poteva che sorgere in ambiente anglosassone, dove l’attenzione per gli aspetti quantitativi non riguarda solo le scuole di giornalismo ma è connaturata alla società. Tra i più decisivi animatori mi piace ricordare Adrian Holovaty, del quale ammiro anche l’amore per il jazz manouche.
Il giornalismo italiano, che pure per altri aspetti è più apprezzabile di quanto si pensi da noi, inguaribili esterofili, resta per il momento al palo, fedele a quello che potrebbe essere il suo vero motto (senza l’ironia che la frase prende in America): Never let the facts get in the way of a good story!
Le pagine 32-37 di Digitalmente confusi affrontano, aprendolo anche ad altri contesti e generalizzandolo, il problema sollevato questa settimana dal New York Times, ossia la domanda se sia giusto che i telecom provider e i loro partner si approfittino di un pubblico che paga a consumo megabyte e gigabyte senza sapere cosa siano.
(Tutti sanno che tenendo accesa la stufetta elettrica per ore e ore si prende una stangata in bolletta. E invece pochi capiscono cosa implichi il guardare via smart phone una sintesi di Benfica-Chelsea o le news, o anche solo il cliccare qua e là, tra infinite trappole tariffarie e trucchetti di ogni sorta di fronte ai quali la vituperata Vanna Marchi è persona perbenissimo).
Sono curioso di vedere se e come l’argomento verrà adottato anche dai media italiani: qui, infatti, non è solo il consumatore a ignorare il megabyte, come racconta efficacemente il NYT, ma anche la Stampa nella sua totalità.
E non la soccorrerà Wikipedia, ormai da tempo l’unica fonte giornalistica di approfondimento: la voce “megabyte” di it.wiki, oltre a essere scritta (9 aprile 2012) nel solito italiano approssimativo, è purtroppo incomprensibile per un non informatico.
Nel libro invece, dapprima alle pagine 37-43 e poi per esteso al Capitolo 3, vegono presentate in modo semplice e piano tutte le definizioni necessarie per capire da utilizzatori l’informatica e le telecomunicazioni.
PS: Con la mitica banda larga, pelosamente propagandata dall’industria delle telecom e da quella dell’entertainment ma fraintesa dalla società, i mercanti faranno scempio ancora più grande, e ancora più in fretta, di consumatori inconsapevoli.
Una ragione in più per la quale dovremmo capire il digitale mentre lo facciamo (se lo facciamo…)